José Saramago
di Luciano Minerva



Pensiero obliquo, Non mi chieda di spiegarglielo, più che sentirlo io lo vedo” dice in Storia dell’assedio di Lisbona la dottoressa Maria Sara al revisore Raimundo Silva: così gli descrive la caratteristica che apprezza in lui e che va ben al di là della semplice "capacità di osservazione critica“. L’attenzione che José Saramago destina a ciò che gli sta intorno, a chi gli parla, a ciò che vede o scopre per la prima volta rende concretamente l’immagine di quel"pensiero obliquo“, quasi di uno sguardo obliquo, dove la vista non si rivolge direttamente e con continuità a un oggetto o a una persona, ma sembra sfiorarli e passare oltre, come per mescolare la vista con gli altri sensi, ricavandone una percezione più sottile e più panoramica della realtà. Un modo di osservare che ricorda molto da vicino quello che si trova descritto nella Storia dell’assedio di Lisbona:
"Guardare, vedere e notare sono maniere distinte di usare l’organo della vista. (...) Solo il notare può arrivare a essere visione completa quando in un punto determinato o successivamente l’attenzione si concentra (...) passandosi così da una sensazione all’altra, trattenendo, trascinando lo sguardo, come se l’immagine dovesse prodursi in due punti distinti del cervello, con un segnale amplificato, poi il contorno netto, la definizione nitida.“ Avvicinandosi al vascello scelto come luogo dell‘intervista Saramago, più che inquadrarlo, lo squadra inclinando la testa con un sorriso denso di ironia e di gioco più che di stupore. "I cannoni della letteratura sparano, questi no“ dirà al termine dell’intervista, come per tracciare i confini tra il mondo dell’illusione visiva che offre il cinema e quello della metafora letteraria, di cui lui è tra i maggiori maestri contemporanei. L’impressione che hai, sentendolo parlare, è che stia bene attento a non prendersi troppo sul serio. Entra in un argomento, lo rigira da ogni parte e poi è pronto a svuotarlo dell’eccesso di significati che gli si potrebbe dare. E questo non significa assenza di passione o di impegno o di presa di posizione decisa sulla direzione in cui oggi va il mondo: la globalizzazione per lui è „un nuovo totalitarismo“.
L’abbiamo incontrato nei giorni in cui il Teatro dell’Archivolto di Genova gli tributava due giorni di omaggio teatrale e musicale. La prima parte era dedicata alla lettura de Il racconto dell’isola sconosciuta, pubblicato nel ’97, una trentina di pagine create senza interruzione, scritte così come si leggono, tutte d’un soffio. "Mi sono alzato dalla scrivania solo quando ho finito di scriverlo“ racconta, stupito che un lavoro fatto "su commissione“ gli sia riuscito tanto bene.
" Un uomo andò a bussare alla porta del re e gli disse, Datemi una barca.“ è l’incipit di questo racconto. Per questo gli abbiamo proposto un‘intervista a bordo del Neptune, fatto costruire, su un modello secentesco, da Roman Polanski per il film "Pirati“ (per una spesa di 15 miliardi su cui molti furono critici). E dal "Datemi una barca“ gli abbiamo chiesto di pilotarci nel territorio della sua letteratura. Per l’occasione ci siamo serviti anche di due domande poste dai lettori al sito web di Rai educational.

2001, Genova

José Saramago: per comprendere non basta vedere
di Luciano Minerva

Ha mai pensato di "chiedere una barca", come fa con molta decisione il protagonista del suo racconto nei confronti del re?

In fondo chiedere una barca significa che la persona potrebbe già avere un progetto di vita. Diciamo che la barca può essere semplicemente una vera barca, o una metafora, un'idea del futuro. Se mi chiedono una barca, io direi sempre che la barca è ciascuno di noi. Il racconto dell'isola sconosciuta è stato scritto per dire che l'isola sconosciuta siamo noi e qualunque viaggio si faccia non può sostituire l'unico viaggio che è quello dell'autoconoscenza, ma senza alcun tipo di spiritualismo, semplicemente vivere e cercare di capire la vita, nulla di più, senza grandi illusioni di arrivare chissà a quali scoperte, perché in fondo l'unica scoperta importante, che credo che non riusciremo mai a fare, è quella di noi stessi.


Su navi simili a questo galeone i colonizzatori europei, spagnoli e portoghesi, trasportavano le ricchezze della terra e del sottosuolo dall’Europa all’America e depredavano e massacravano gli indios, considerandoli privi di anima. Lei viene da Città del Messico, dalla manifestazione degli indios per il riconoscimento dei loro diritti. Cosa sta succedendo oggi in Sudamerica?

Vediamo: sono passati circa cinquecento anni dall’arrivo non solo dei soldati per conquistare, ma anche dei frati che dovevano convincere a cambiare religione, perché stranamente cio‘ che non si poteva ottenere con la spada si ottenesse col crocifisso: era come una doppia forma di aggressione , quella del conquistatore che imponeva con la forza la propria legge e, in modo molto piú insidioso, la presenza di qualcuno che arrivava per dire agli indigeni che le credenze su cui si fondavano la loro cultura e le loro tradizioni erano, in fin dei conti, tutte false. Dunque cinquecento anni dopo assistiamo a una cosa un po‘ strana, come l’attesa di tanti anni - e ancora non sappiamo quale sarà il risultato del movimento attuale - per riconoscere che gli indios in tutto questo tempo sono stati non solo sfruttati, emarginati, ma anche umiliati in tutti i modi, privati di quello che apparteneva loro. E questo, finalmente, sta accadendo grazie a un movimento che, almeno in Messico, vuole che la Costituzione li riconosca uguali a tutti gli altri cittadini. Spero che tutto finisca bene e che il movimento di rivendicazione indigena nato dalle lotte degli zapatisti dell’84 e del 93 si estenda al resto dell’America e che davvero l’indio, dovunque si trovi, in una terra che era sua, possa avere il ruolo di cittadino, con il rispetto di esigenze, tradizioni, lingue, costumi e che tutto ciò possa integrarsi piú o meno armoniosamente nelle società dei paesi latino-americani.

Nei suoi romanzi c’è sempre un personaggio, quasi sempre quello che deve prendere decisioni, che sa vedere meglio degli altri e ha il compito di indicare agli altri la strada, come fa la moglie del medico nel manicomio di "Cecità". È una metafora del ruolo dello scrittore nella societa?

Lo scrittore in questo caso avrebbe una missione. Se si suppone sia capace di vedere, allora avrebbe la missione di trasmettere, di comunicare quel che vede agli altri, prima di tutti ai lettori. Non so se si tratti effettivamente di una missione, come se lo scrittore dovesse svolgere un ruolo di annunciazione, persino quasi messianico. Sebbene qualche volta nei miei romanzi ci sia la preoccupazione di vedere, rendersi conto, osservare, nonostante a volte ci sia una relazione diretta con l’organo della vista, credo che ci sia sempre un aspetto oggettivo, perché quando dico „vedere“, intendo „comprendere“, perché per comprendere non basta vedere. Vedere è solo un mezzo per arrivare alla comprensione.
Ricordo che qualche volta mi domandarono - domanda che si fa spesso a uno scrittore - perché scrivo. All’inizio dicevo di scrivere perché pensavo di piacere alle persone - risposta molto comune - poi passai a dire che scrivevo perché non volevo morire, con l’idea che l’opera rimane ben oltre la vita dell’autore, idea anch’essa un po‘ temeraria, perché anche l’opera finirà come ogni altra cosa e può essere dimenticata. E ora, quando devo rispondere a questa domanda, mi limito a dire che scrivo per comprendere, senza avere la certezza di aver compreso, in definitiva non si può aver la certezza di aver compreso tutto. Nessuno comprende tutto, mai. Ma, in fondo, lo sforzo di comprendere, che è rappresentato praticamente in tutti i miei libri, è questa necessità di conoscenza, e non per arrivare a uno stadio superiore di coscienza, ma semplicemente alla conoscenza diretta, necessaria, immediata, che permette la relazione con il mondo e, soprattutto, con gli altri.



Il suo ultimo libro è La caverna. Le riportiamo la domanda che una sua lettrice, Laura de Minicis, le rivolge attraverso il sito di Rai educational: "Se oggi la caverna di memoria platonica è il centro commerciale, qual è la realtà? la globalizzazione di una terra sovrappopolata? Mi pare che nel nostro alienante universo caverna e realtà coincidano".

No, non credo che caverna e realtà coincidano, perché in questo caso dobbiamo chiederci cosa intendiamo per realtà. Nella caverna platonica la realtà era l‘alienazione di chi immaginava che le ombre che vedeva fossero la realtà. Ma nel mio romanzo ci sono due realtà: quella esterna, che i personaggi non conoscevano, e la realtà della situazione in cui si trovavano, guardando le ombre sulla parete e scambiandole per la realtà. È ancora una volta una questione di autoconoscenza: non solo quella che ci permetterebbe una percezione piú chiara del nostro posto nel mondo e nell’universo, ma quella che ci farebbe anche capire come funzionino le società, cosa sia effettivamente la storia, come l’essere umano sia arrivato a una condizione del genere, quali strade migliori avrebbe potuto prendere, se veramente questo cammino sia cattivo come sembra, se ci sia la possibilità di trasformarlo, se possa esistere una giustizia sociale davvero equilibrata, se abbia senso vivere come se la cosa piú importante fosse l’esplorazione dei pianeti piuttosto che la soluzione dei problemi del nostro pianeta. Tutto questo, in conclusione, riguarda l’ idea che noi abbiamo del mondo in cui viviamo.
È chiaro che non vale la pena discutere all’infinito su cosa sia la realtà, perché la realtà per il mio cane non è la realtà che posso captare io. La realtà per un batterio, supponendo che un batterio abbia coscienza del mondo, non è certo la stessa. Noi abbiamo determinati organi per percepire l’esterno, ma cosa sia l‘esterno dipende dagli organi che abbiamo. Se invece di cinque sensi ne avessimo cinquanta differenti, avremmo una percezione della realtà completamente diversa. Dobbiamo vivere nella relatività del nostro rapporto con quel che ci circonda e cercare di fare qualcosa che ci renda possibile vivere in pace, niente di piú.



La realtà umana vista da un cane. Ce la ripropone in questa intervista come ha fatto in più occasioni nei suoi romanzi. Nella Caverna uno dei protagonisti è un cane, che si merita addirittura un nome, Trovato, cosa che non succede a tutti i suoi personaggi. Che cosa rappresenta per lei il cane?

Qui bisogna distinguere tra i cani in generale e i nostri cani, così come bisogna distinguere tra le persone in generale e le altre persone che amiamo, la nostra famiglia, i nostri amici. In fondo, la relazione con il cane ha due strade, quella in cui il cane si avvicina all’uomo e quella, meno frequente, e forse più importante, in cui l’essere umano fa il possibile per avvicinarsi al cane. Forse si puo‘ stabilire una relazione con l’animale in questa mutua approssimazione e, nel caso del libro, questo cane, questo animale „Trovato“, che non aveva nome - in fondo abbiamo il nome che ci diamo, che ci danno, noi non abbiamo veramente un nome - questo cane si trasforma in una specie di piano in cui si riuniscono gli affetti degli umani: il cane ha la funzione di trasmittente degli affetti tra i quattro esseri umani che popolano questo universo fittizio. In conclusione, non diamo tanta importanza a un cane, il cane è un cane e noi siamo quel che siamo, qualche volta siamo dei cani, ma veri cani ...



Mentre i cani veri dei suoi libri hanno una sensibilità superiore a quella degli esseri umani, come il cane di Cecità, che sa quando asciugare le lacrime di una donna e quando lasciarle scorrere.

Sí, ma qui siamo in una situazione romanzesca e dubito che un qualsiasi cane in una qualsiasi epoca fosse capace di intendere cosa significhi una lacrima e provare un sentimento di pietà che lo porta - nel caso del mio romanzo Cecità, - ad asciugare le lacrime di una donna. Però non credo che un qualsiasi cane, per quanto sensibile e intelligente, possa prendere questa iniziativa. Quel che volevo dire era che, quando gli esseri umani smettono di avere pietà l’uno dell’altro, allora mi piacerebbe almeno che gli animali fossero capaci di avere compassione della nostra infelicità. Questo cane dunque è una metafora della compassione, cosí come questo galeone è la metafora di una nave. Credo che tutti noi, in definitiva, viviamo circondati da metafore e, come si legge anche nel mio romanzo Tutti i nomi, probabilmente la metafora è la maniera migliore di spiegare le cose. Da qui la presenza di questo cane che ho chiamato „il cane delle lacrime“, senza altro nome: in un mondo crudele come quello in cui viviamo, sembra che la nostra unica speranza sia che gli animali abbiano pietà degli esseri umani. Ma tutte queste sono invenzioni romanzesche che non bisogna prendere sul serio.



Dunque anche in questo caso lei introduce attraverso la letteratura, come ha detto nel suo libro-intervista a Juan Arias, personaggi, umani o animali, che arricchiscano il mondo reale e la nostra esperienza.

Si, perché in certo modo, il sentimento di umanità che dimora in noi non credo sia sufficiente, almeno non lo è stato per rendere la vita migliore di questa. Un grande scienziato, Konrad Lorenz, diceva - e credo avesse ragione - di aver scoperto l’elemento intermedio tra la scimmia e l’essere umano, e che questo elemento intermedio eravamo noi. Quindi, non siamo piú la scimmia, ma non siamo ancora l’essere umano, siamo a metà strada.



Siamo di nuovo ai temi che lei ha affrontato ne La caverna e ad un’altra domanda inviata via e-mail a Rai educational da Giacomo Vottoli: „Non voglio diventare una delle mille lampadine di un qualsiasi centro commerciale ma non mi sento neanche di rinchiudermi nella cattedrale della religione cattolica. Mi rimane allora solo una ricerca libera, personale, di una distinzione tra bene e male, esposta però al rischio della chiusura in se stessi. E perché?

Qui c’è un problema che per me è fondamentale: chi ha fatto questa domanda ha posto il problema del dubbio. Quello di cui oggi abbiamo maggiormente bisogno, al contrario di quanto si potrebbe immaginare, è proprio il dubbio. Il dubbio è necessario, il dubbio - almeno come lo intendo io - è sempre più indispensabile, perché viviamo in un mondo in cui costantemente si riaffermano certezze e si cerca di confermare come qualcosa di indiscutibile quelle che chiamiamo verità. Io credo che qualsiasi verità stabilita, di qualsiasi tipo e natura, sia sospetta. Questo tanto nel caso piú ovvio, quello della religione, come nel caso di quelle grandi verità in circolazione che servono tanto per illuminare il cammino, quanto per chiuderlo. Da qui la mia affermazione che ogni verità instaurata, tutto ciò che in un certo momento si manifesta o si esprime come una verità, mi sembra sospetta e vada messa in dubbio. Pertanto, proprio al contrario di quel che sembra, la mia risposta è che non propongo alcuna certezza. Chiedo che compagno della mia vita mentale sia il dubbio. Il dubbio è una compagnia molto migliore che non una certezza, perché il dubbio mantiene vivi, mentre la certezza finisce per paralizzarci.

La sua vita sembra l’esatto contrario della tendenza a fermarsi, a cristallizzarsi. A 58 anni lei ha incontrato il successo, a 64 il suo grande amore, a 76 ha vinto il Premio Nobel. Il personaggio di un suo romanzo dice: „Tra i cinquant’anni e i settanta si imparano molte cose.“ In questo decennio che la avvicina agli ottanta che cosa ha appreso? E lei che ama tanto cercare i nomi e giocare con i nomi, quale nome le piace dare all’età che sta attraversando: maturità, terza età, vecchiaia, anzianità?


Credo di aver scoperto qualcosa che riguarda solo me, che non si può trasmettere agli altri, non è né una lezione, né un consiglio, ed è la coscienza - per lo meno credo di averla. Se mi domandano come mi definirei oggi, direi che quanto più vecchio tanto più libero, e quanto più libero piú radicale. Quanto al nome che sceglierei, non vale la pena di farlo, perché già ce l’abbiamo: vecchiaia. A settant’anni, a settantacinque o a settantotto - la mia età attuale - non val la pena cercare parole apparentemente piú accettabili. La parola cruda e dura, se vogliamo anche brutale, è questa, vecchiaia, e bisogna accettarlo; non vale la pena stare a cercare un’altra parola per disfarsi di una realtà: la realtà è questa. Ora, se la vecchiaia è una vecchiaia attiva, se la testa continua a lavorare, allora l’augurio è che viviamo da vecchi per molti anni. È meglio vivere molti anni da vecchi che non viverli per esser morti giovani.


L’intervista e‘ stata realizzata in collaborazione con Rai educational, a Genova il 14 febbraio 2001.
La traduzione e‘ di Raffaella Paolessi