Antjie Krog: storie di apartheid dalle tracce indelebili

di Luciano Minerva


Non si può restare indifferenti dopo aver letto “Terra del mio sangue”. L’esperienza di chi, come l’autrice Antjie Krog, ha seguito giorno per giorno per due anni e mezzo i lavori della Commissione per la Riconciliazione e la Verità istituita in Sudafrica nel 1995, ti entra nel cuore e nella pelle. Perché i racconti delle vittime e dei carnefici di oltre trent’anni di apartheid sono storie sconvolgenti, sono specchio di un orrore che abbiamo vagamente sentito e vissuto da lontano. E perché, a sua volta, l’esperienza di chi ha ascoltato una per una duemila voci per raccontarle alla radio è un racconto di empatia che ti porta in quel Sudafrica, in quelle storie, in quelle pieghe dell’animo che ciascuno di noi vorrebbe evitare e non conoscere.
Incontrando Antjie Krog al Festivaletteratura di Mantova ho avvertito come un timore reverenziale: un misto di ammirazione, gratitudine e paura di non riuscire a farle esprimere in poco tempo, a voce, la sintesi di quel turbinio di sensazioni, sentimenti, travagli che le ha comportato quell’esperienza. Per aiutarci a raccontarla le ho chiesto di portare qualcuno di quei documenti sonori o visivi di cui è stata testimone. E abbiamo ambientato l’intervista in una saletta montaggio, per avere sullo sfondo quelle voci, quelle immagini, quelle storie di vita che avevano lasciato tracce così forti sulle sue pagine.
La soluzione, lo scioglimento del nodo in un’altra forma-racconto, quella dell’intervista, è venuta poi da sé nel dialogo, nell’ascolto, nel lasciar scorrere quella stessa empatia, nell’entrare nelle stesse pieghe delle emozioni raccontate tanto bene da Antjie nel suo libro.

2008, Mantova

Antjie Krog

Da Rainews 24

Intervista di Luciano Minerva

Nel ’96 lei ebbe un incarico speciale. Raccontare al pubblico della radio il lavoro della Commissione per la Verità e la Riconciliazione. Lei dice nel suo libro “ Io non ero fatta per questo lavoro”. Come ha potuto poi affrontarlo?
Avevo un’idea molto chiara della colpa. In un certo senso avevo anche capito che farlo era per me un dovere, una responsabilità. Era abbastanza strano che molti giornalisti della carta stampata, della televisione, della radio fossero in effetti afrikaaner. In un certo senso ci siamo fatti carico del fatto che dovevamo riconciliarci con il passato. Volevamo sapere una volta per tutte quello che era successo, raccontarlo nel modo più completo e vero possibile. Accettarlo creando una memoria collettiva. Perché ognuno di noi conosceva solo la metà del Paese.

Generalmente i giornalisti si occupano del presente. Invece in quel caso dovevate confrontarvi con il presente e con il passato. Dovevate trasformare il passato in attualità. Come lo avete risolto?
Ci siamo subito resi conto che il passato non va mai via. Il passato è estremamente presente. Le persone arrivano, si siedono e sorridono, ma quando cominciano a parlare crollano, vanno in pezzi. E ci si rende conto che tutto il loro corpo porta ancora i segni di quel passato. Dunque in questo senso non è stato un problema, non era una questione passata, ma un evento attuale.

Due nazioni l’una di fronte all’altra. Una era l’afrikaaner di cui lei faceva parte ma poi si sentiva in empatia con l’altra. Come lo ha affrontato questo problema?
Via via che la Commissione per la Verità portava avanti il suo lavoro, ci si sentiva sempre più coinvolti da questo dolore. Era un continuo crescere, un “accumularsi” del dolore giorno dopo giorno. Ogni giorno ascoltavo otto storie e in un certo senso cominciavo a disperarmi. Quale giustificazione, cosa potevo suggerire perché si potesse rimediare a tutto questo? Come riparare? Perché è un danno talmente enorme.
Succedeva una cosa molto strana quando erano i carnefici a parlare. Improvvisamente quando li guardavo riconoscevo il mio popolo, riconoscevo i loro capelli, i loro abiti, il loro accento, il loro lessico. E la loro umiliazione e le mutate circostanze. Quello che avevano fatto sembrava giusto dieci anni fa e ora improvvisamente era sbagliato. Come potevano affrontare tutto ciò, come raccontarlo ai loro figli? E io insieme a molti delle vittime nere, cominciavo a sentire empatia con loro. E ciò che cominciava a crescere dentro di me era un senso di rabbia contro i politici che ora non si assumono alcuna responsabilità, che non si confessano, che non fanno che spostare le loro alleanze, sono stati loro a dare gli ordini. Venivano mantenuti al potere dai carnefici che erano sul campo. Devo dire che una persona come l’arcivescovo Desmond Tutu ha fatto molto e ha detto costantemente che anche i carnefici sono stati creati da Dio e che ognuno di noi ha dentro di sé la capacità di uccidere o di amare. Abbiamo entrambe.

L’arcivescovo Tutu è una figura centrale in questa Commissione. Come la ricorda adesso in quel ruolo e come in questa Commissione riuscì a far crescere la consapevolezza sociale.
Provo per l’arcivescovo Tutu un’ammirazione inesprimibile con le parole. Per la sua immensa umanità. Non ho mai incontrato nella mia vita qualcuno con una tale capacità di trascendere la rabbia, il dolore, il male, il risentimento, l’egoismo. Ha preso tutto ciò e lo ha trasformato in qualcosa che poteva farci essere migliori. Ogni sera dopo aver ascoltato i racconti lui faceva un breve resoconto per la stampa. Noi eravamo tutti a pezzi, distrutti, non sapevamo se volevamo piangere o uccidere qualcuno e lui ci prendeva uno a uno, ci portava a gestire la rabbia e il dolore e ci diceva “Vogliamo essere diversi ora. Essere migliori. Vogliamo essere gentili. Essere una nazione che ama.” Questo processo sarebbe stato del tutto inimmaginabile senza di lui. Per questo, ma anche grazie alla sua abilità nel trovare le parole per esprimere quello che era successo. Perché noi eravamo senza parole e lui pian piano ci aiutava a trovare un linguaggio per esprimere la rabbia e il dolore.

Nelle immagini vediamo piangere i testimoni che raccontano. Piange chi ascolta. Piangono i giornalisti e ha pianto anche lei. Che processi ci sono dietro queste lacrime?
Il pianto di noi giornalisti era irrilevante. Noi sentivamo che dovevamo far bene il nostro lavoro. Se volevamo piangere potevamo farlo, certo, ma senza fare confusione, senza che ciò interferisse con il nostro lavoro. Ma il pianto dei neri… non sono in grado veramente di spiegare bene quello che generava, perché noi eravamo cresciuti con la nozione razzista che i neri in realtà non hanno dei sentimenti profondi, non “sentono”. Loro non sentono freddo, non si occupano dei loro bambini, non hanno emozioni forti, e invece lì c’era questo confronto costante con l’umanità dei neri. Molti della commissione piangevano e lo stesso arcivescovo Tutu a volte scoppiava in lacrime. Recentemente sono stati pubblicati un’enorme quantità di libri da giovani scrittori neri, uomini, che piangono ossessivamente nel libro e tutti fanno riferimento al giorno in cui hanno visto piangere l’arcivescovo Tutu e come ciò ha reso possibile che degli uomini si addolorassero e piangessero. E’ stato attraverso il pianto e le parole che le persone hanno cominciato a vedersi l’un l’altro come esseri umani e non solo come vittime di fronte a...

Come è stato possibile essere lì da giornalista usando la conoscenza delle parole della poetessa per raccontare queste storie?
Era allo stesso tempo una benedizione e un orrore. Perché hai un organo dentro di te che risponde al linguaggio e lavorando alla radio devi prendere il nastro, ascoltare il racconto, scegliere il pezzo, riascoltarlo, tagliarlo, riascoltarlo, dunque ogni testimonianza l’ho ascoltata e riascoltata, di ogni testimonianza che leggo ora io risento l’esatta intonazione conosco l’identità e ogni cosa. E’ stato durissimo per me. D’altro canto ero in grado di concentrarmi su quanto la parola fosse straordinaria. Erano momenti eccezionali in cui qualcuno stava per dire cose come “Quando aprii la porta, lei stava lì il suo petto era una fornace” non c’è bisogno di descrivere, di dire molto. Quel linguaggio porta in sé una verità che resta scolpita nella memoria. In un certo senso noi alla radio abbiamo cercato di focalizzarci su quei momenti del linguaggio e poiché c’era la traduzione la gente poteva esprimersi in modi incredibili.

Lo stesso processo di empatia ha coinvolto anche gli interpreti. Lei parla di uno di loro in particolare. Ha coinvolto tutte le persone presenti. Qual era il clima tra i professionisti presenti anche tra i membri della Commissione?
Ci siamo presto resi conto di formare parte di un evento importante, una piccola parte di una parte più grande, che era ristabilire la memoria di cosa era il Sudafrica. E prima di iniziare non potevamo sapere quanto ciò avrebbe avuto un impatto su di noi. Noi vedevamo quanto le vittime fossero state colpite, ma ascoltare le testimonianze avrebbe avuto un impatto sui membri della Commissione e sui traduttori.
Come si può vedere nei filmati, ogni testimone aveva qualcuno accanto a sé, un “briefer”, un traduttore, tutte queste persone erano fisicamente colpite. Qualcuno della Commissione si è ammalato, qualcuno ha avuto problemi alla schiena, molti si sono ammalati di tumore. Lo stesso per i traduttori…, tutti hanno lasciato il loro lavoro dopo aver lavorato per la Commissione, non lavorano più come traduttori, alcuni sono diventati alcolisti, altri hanno cominciato a picchiare moglie e figli. E così anche i giornalisti, ognuno ha pagato un prezzo, tutti noi siamo stati consapevoli che si è trattato di un enorme privilegio partecipare alla diffusione delle udienze. C’erano 17 membri della Commissione.
Noi abbiamo operato in due modi diversi. Primo, le vittime hanno testimoniato in pubblico, questo non era mai successo prima, era sempre avvenuto a porte chiuse. Questo è stato un cambiamento importante. Inoltre noi non abbiamo fatto differenza tra vittime e carnefici. Per noi le vittime non erano testimoni di prima classe e i carnefici di seconda. I carnefici in tutti gli altri casi hanno ottenuto un’amnistia generale, il che significa che tutti i politici, tutti i generali hanno usufruito dell’amnistia, senza testimoniare. In questo caso dovevano venire a dichiarare ciò che avevano fatto “Io ho ucciso e voglio l’amnistia per quello che ho fatto”. Questo è stato il cambiamento radicale, l’amnistia individuale.
Le testimonianze delle amnistie e le testimonianze delle udienze pubbliche hanno avuto un effetto sulle persone intorno ma anche sul Paese in modi strani. Tutto ciò che è stato scritto dopo il lavoro della Commissione era una risposta ai racconti di 2000 neri, racconti che erano improvvisamente “esplosi” , voci fino a quel momento negate o ignorate o emarginate.

Come parte di letteratura della Commissione c’è sicuramente questo “Terra del mio sangue”. Il libro a cui lei si dedicò continuando a lavorare dopo i due anni e mezzo di lavoro per la Commissione. Che esperienza è stata?
Naturalmente quando sei un giornalista non ti si chiede di partecipare in prima persona. Come giornalista non posso portarmi dietro il mio senso di colpa, la mia rabbia, o i miei dubbi o le mie domande. Sei solo un canale attraverso il quale far passare un resoconto. Ma dentro di me avevo molte domande e ho fatto interviste interessanti a personaggi come F.W. de Klerk o l’arcivescovo Tutu che mi hanno raccontato molte cose non paragonabili a vere e proprie “notizie”. In un certo senso il libro mi ha salvato dalla mia angoscia perché potevo dire di sentirmi colpevole e cosa si fa con la propria colpa? Come si vive con la propria colpa? C’è differenza tra senso di colpa e vergogna? La colpa deve trasformarsi in responsabilità? Come è possibile ciò? Cosa faccio con la mia lingua? La mia lingua può solo materializzarsi davanti alla Commissione per la Verità quando diceva cose come “Uccidilo!” o “Sta andando a cacare” o “fottuti negri” è così che la mia lingua si manifestava. Come posso amare in questa lingua? Allevare dei bambini in questa lingua? Scrivere? Per me il libro è stato importante anche perché io non ho solo giudicato gli altri, ho giudicato me stessa perché io stessa non ho fatto abbastanza o ho fallito quando mi sono resa conto che le cose erano sbagliate.

E come è cambiata la sua poesia?
In realtà io non ho scritto per parlare della Commissione per la Verità. Non mi sembrava giusto. Ho scritto per parlare di colpa e responsabilità e ancora adesso non posso perché in un certo senso è forgiata in una forma specifica, che io non posso utilizzare.

Qual è la sua impressione sul modo in cui il film “In my Country” ha ridato la realtà della Commissione.
Naturalmente sapevo che non si poteva realizzare un film dal libro così com’è, altrimenti bisognerebbe realizzare un documentario, ma ovviamente loro volevano fare un film. Bisognava creare una storia che portasse avanti l’idea radicata nella Commissione per la Verità. Per questo devo dire di essere grata che questo sia stato fatto perché ha portato avanti un’idea / opinione che è nuova per il mondo: il modo in cui il mondo ha trattato l’ingiustizia come un particolare modo che si è manifestato dopo la Seconda Guerra Mondiale. Il modo in cui ognuno ha sentito che ci si dovrebbe rapportare all’ingiustizia. Ma poi alla fine del XX secolo, alla nascita del nuovo Sud Africa, un diverso modo, non necessariamente migliore, è stato messo in atto, che è riconoscere il fatto che siamo interconnessi, riconoscere che bisogna vivere insieme, che se mi vendico rinuncio alla possibilità di diventare umano. Divento inumano esattamente come l’altro. Dunque perdonandoti io spero che tu possa cambiare, spero che tu possa imparare da me come diventare umano e attraverso la tua umanità io posso diventare umano di nuovo e così vivere insieme. E’ un concetto importante che loro hanno cercato di manifestare nel film. Non credo che abbia funzionato pienamente. No, non ha funzionato. La gente era eccitata in Sud Africa, “Oggi ho giocato a golf con Samuel L. Jackson. Era accanto a me al corso di golf!” E ho sentito qualcun altro dire “Io faccio la messa in piega a Juliette!” “Chi è che pettina Juliette? Andiamo a vedere chi è!” A un certo punto c’era una scena con la Commissione per la Verità, una scena di collera. E il personale delle pulizie che stava lavorando lì ha cominciato a chiedere “Cosa sta succedendo?” e sono entrati tutti, si sono ammassati dentro e hanno cominciato a cantare e tutto si è trasformato in un’enorme manifestazione di protesta e i cameraman non sapevano bene cosa riprendere se la scena cinematografica o la scena di vita vera. Questo è stato divertente.

Che cosa ha lasciato come tracce questa Commissione ad alcuni anni di distanza?
Penso che in generale tutti siano d’accordo che molte cose non hanno funzionato, soprattutto perché era appesantita da molte aspettativa. Alcuni pensavano che avrebbe portato un nuovo senso morale, un senso di responsabilità politica. Altri pensavano che avrebbe semplicemente portato l’amnistia. Altri che avrebbe determinato la riconciliazione completa. Ma la Commissione non poteva fare tutte queste cose. La legislazione stabilisce solo che doveva portare l’amnistia e iniziare il processo di riconciliazione, cose che ritengo la Commissione abbia fatto. Ma l’aspetto su cui sono tutti d’accordo è su quanto siano state forti le testimonianze in pubblico delle vittime. Nel 1976 ho divorziato. Quello nella mia mente è dunque un anno traumatico, ma man mano che ascoltavo le testimonianze delle vittime mi rendevo conto di quanto nel resto del Paese e persino nella città dove vivevo ciò che succedeva all’interno di case e fattorie. Per la prima volta relativamente all’anno 1976, io ho una memoria piena. Questo hanno fatto le testimonianze, hanno ridotto la quantità di bugie che si potessero dire. Non si può più dire che le persone non venissero torturate, non si può più dire che le persone non venissero uccise nelle loro fattorie. Su questa verità siamo tutti d’accordo.

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