GIORNO DEL RICORDO 2010


Da sei anni - il 10 febbraio - in Italia si celebra il Giorno del Ricordo, considerato una solennità civile, al fine di “conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della complessa vicenda del confine orientale” (legge 30 marzo 2004 N. 92).

In diocesi abbiamo due comunità di profughi istriano-dalmati: alle Villotte di San Quirino ed a Bibione. Le loro vicende personali – inquadrate nell’ampia situazione della pulizia etnica e dei massacri delle foibe - sono emerse attraverso alcune pubblicazioni edite dal primo gruppo e, per quanto riguarda la comunità di Bibione, da un progetto didattico e mostra fotografica, curata dall’ist. Statale “M. Belli” di Portogruaro e dal Gruppo “il Timènt”, dal titolo “Istriani a Bibione: così vicini, così lontani…”. Questo secondo lavoro ha ricevuto una menzione speciale dalla giuria nel concorso “Ma che storia”, promosso nello scorso anno scolastico dal Centro di Documentazione “Aldo Mori” di Portogruaro.

Nei tristi giorni dell’esodo ben 32 tra sacerdoti, religiosi e chierici, poi ordinati, - d’origine istriana, fiumana e dalmata – hanno ricevuto accoglienza nella diocesi di Concordia da parte del sensibile e paterno vescovo mons. Vittorio D’Alessi, che tante vite aveva salvato nel periodo della Resistenza.

Nel Giorno del Ricordo nella Casa Betania di Pordenone, naturale riferimento religioso per il clero d’origine istriano-dalmata, per i familiari e per le comunità di San Quirino e Bibione, sarà celebrata una messa in suffragio dei 120 sacerdoti e religiosi martirizzati nelle foibe e per i 32 religiosi accolti in diocesi nei giorni dell’esodo, di cui tre sono ancora viventi.

L’ultimo ad entrare nella casa del Padre è stato mons. Domenico Corelli, mancato lo scorso 13 dicembre 2009 a 97 anni.

Mons. Corelli, nato nell’isola di Cherso nel 1912, ordinato sacerdote nel 1937, già direttore spirituale del Seminario di Lussingrande dal 1945 al 1948, subì nove mesi di carcere, dal giugno al dicembre 1948. Giunto in diocesi agli inizi del 1949 fu direttore spirituale del Seminario di Pordenone dal 1950 al 1968, formando centinaia di futuri presbiteri. Direttore diocesano dell’Apostolato di Preghiera dal 1952 al 2004, fondò la Pia Opera “Sacerdozio Regale” e diresse mensilmente per oltre 50 anni l’omonimo bollettino, diffuso in cinquemila famiglie.

Cappellano di Sua Santità dal 1963 trascorse gli ultimi anni come direttore spirituale di Casa Betania, l’istituzione pordenonese da lui voluta. Dai suoi scritti, da dove emerge la testimonianza d’amore cristiano con tutti, e le considerevoli doti d’umanità, in un periodo di violenza disumana, riassumiamo di seguito una memoria relativa al periodo trascorso nelle prigioni jugoslave.

Alla fine della guerra l’ultimo arcivescovo di Zara, mons. Pietro Doimo Munzani (1890-………), raccolse 40 alunni nel Seminario minore a Lussingrande – isola di Lussino - dove lo stesso vescovo si recava spesso per svolgere la sua attività pastorale, come pure nella vicina isola di Cherso e nelle isole minori: nominò rettore il don Giuseppe Della Valentina (1913-1993), anche lui approdato poi in diocesi di Concordia (fu insegnante nel Seminario e parroco di Vacile) e, in qualità di economo e direttore spirituale, don Corelli, allora parroco di San Martino in Valle. Don Corelli si spostava, dal lunedì mattina al pomeriggio del giovedì, dalla sua parrocchia al Seminario, percorrendo otto chilometri a piedi per raggiungere a Bellei la stazione della corriera che faceva il percorso che lo portava all’imbarcadero per Lussino e poi un ulteriore tratto a piedi per raggiungere il Seminario. Questi spostamenti misero in sospetto alla polizia di Tito, che lo vedeva percorrere il cammino con la bisaccia sulle spalle e nel tardo pomeriggio del 10 aprile 1948, al termine d’una celebrazione eucaristica, venne prelevato da quattro uomini, alla presenza dei fedeli usciti dalla funzione che si misero a gridare contro di loro, invitandoli, inutilmente, a lasciare il sacerdote. Portato con un motoscafo a Lussingrande nella sede della polizia, già a mezzanotte subì un interrogatorio sulla natura dei suoi spostamenti e per sapere da chi riceveva gli ordini. “Verso l’una venni condotto nel sotterraneo della loro sede e chiuso in una cella buia, senza finestre, con una branda nuda, senza alcuna coperta, per riposare la notte: non avevo nemmeno uno straccio, non c’era alcun mobile. Così andò avanti, sempre in stato d’isolamento, per circa quaranta giorni, senza mai svestirmi né potermi lavare di mattino”.

Nel secondo giorno di prigionia fu sottoposto al primo interrogatorio da parte di un giudice, che aveva raccolto delle false testimonianze sul suo conto. Venne accusato d’attività d’opposizione alle leggi dello Stato mediante la predicazione e le frequenti riunioni serali, durante le quali risultava che avesse discusso sul come opporsi al comunismo; gli veniva contestata la sua (inventata) appartenenza al fascismo, una presunta attività di cambiavalute ed altro. Gli interrogatori proseguirono, di giorno e di notte, per circa 50 giorni: le accuse tendevano inoltre a coinvolgere l’arcivescovo, tentativo avvenuto anche in precedenza con un altro confratello sacerdote, “che si mantenne irreprensibile”. Alla fine d’ogni interrogatorio al sacerdote venivano presentati i verbali di “confessione” inventati, con la frase: “Noi siamo comprensivi, se sottoscrivi che hai fatto tutto questo perché te lo aveva ordinato l’arcivescovo Munzani, sarai libero”. Don Corelli rimase fermo e deciso, nonostante “schiaffi, tirate di orecchi e calci”, perfino

quando arrivarono le minacce di arrestare il padre e la madre, ed anche quando gli mostravano al sacerdote dei verbali con le accuse, estorte a due anziani parrocchiani senza figli, per lungo tempo incarcerati, mentre un giovane, sposato e con tre bambini, pure detenuto, più volte percosso e minacciato con la pistola alla bocca, si era sempre rifiutato di testimoniare il falso: “Anche se mi volete uccidere, quello che dite non è vero”.

Don Corelli riuscì in seguito a vedere in carcere i due anziani in una cella del pianoterra: fece loro un cenno di saluto, anziché rispondere i loro visi si riemprono di lacrime.

A metà giugno il sacerdote fu trasferito al carcere comune di Lusimpiccolo, in una cella di quattro metri per quattro, che ospitava da un minimo di quattro fino ad undici prigionieri, alcuni anche italiani, spesso ladri, rissosi, disobbedienti o ubriaconi. Alla mezzanotte dell’ultimo dell’anno 1948 fu convocato in ufficio, dove ricevette le indicazioni per il rilascio ed il comportamento da tenere in seguito. “Avrei dovuto dire alla gente che ero stato imprigionato per colpa mia: perché non ero rimasto in parrocchia a celebrare la messa e perché avevo svolto attività contro lo Stato secondo l’accusa dei miei due parrocchiani. Uscii a quell’ora dal carcere con il solo mantello e un fagotto: camminavo a stento…Ricevetti l’ordine di uscire dalla Jugoslavia il giorno dopo, 1° gennaio 1949…presi il treno da Fiume per Trieste…Dopo un giorno partii per Roma per incontrare l’arcivescovo Munzani”.

Don Corelli scrisse di essere stato tolto dalla cella d’isolamento, dopo che le autorità jugoslave non erano più interessate ad estorcere confessioni per montare un processo politico-scandalistico ai danni dell’arcivescovo, riuscito a partire per Roma nel mese di luglio. Mons. Munzani, accolto in Vaticano, e nominato canonico di San Pietro, presentò don Corelli ad alcuni prelati con le parole: “E’ questo colui che mi ha salvato dal carcere”. Dopo aver ottenuto per lui un’udienza con il papa Pio XII, mons. Munzani propose al sacerdote varie soluzioni per il suo futuro, alla fine prevalse quella del ritorno in terra veneta. Telefonò al vescovo mons. D’Alessi che lo accolse fra il nostro clero e lo assegnò – dal 1° marzo 1949 - come cappellano a San Vito al Tagliamento.

Il vescovo mons. De Zanche, successore di mons. D’Alessi (mancato prematuramente il 9 maggio 1949), l’anno successivo lo destinerà direttore spirituale del Seminario.

Don Corelli, come ogni profugo, non riuscì mai a guarire del tutto dalle sofferenze del tragico esodo dopo la guerra. Chi è costretto ad abbandonare il proprio paese, la propria cultura, le tradizioni, le chiese, le feste, e affrontare l’incognito è un dramma che ciascuno porta questo dramma sempre dentro si sé.

Da questa testimonianza appare soltanto una piccola parte della grande tragedia del popolo istriano.

Ci auguriamo che emergano altre storie di altri preti di frontiera, altre persone, che ricordino alle nuove generazioni il tragico periodo 1943-47.


Gianni Strasiotto